Il fiore del mio desiderio

Conoscerai il fiore del mio desiderio
quando cesserai di voler essere
padrone dei miei giorni e delle mie notti.

Quando mi guarderai intera
e riconoscerai in me il tuo confine,
l’origine di un mondo che tu non governi.

Conoscerai la dolcezza del mio desiderio
quando saprai guardare la mia forza
senza sentirti annullato dalla mia decisione.

Quando toccherai con le mani
la mia tenerezza e non ne farai grimaldello.
nel volermi espugnare.

Conoscerai la gioia del mio desiderio
quando accetterai la distanza
che i miei passi compiono senza il tuo aiuto.

Quando di nuovo prenderai su di te
la cura della nostra casa, del mondo
più interno in cui mi hai relegato.

Conoscerai la potenza del mio desiderio
quando non mi vedrai più denudata soltanto
e mi saprai grande e piena, sapiente.

Quando imparerai da me
quanto hai preteso insegnarmi
e tornerai a stupirti.

Conosceremo allora, insieme,
una libertà nuova.

E torneremo ad essere due
in una vita soltanto.

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Storia per la notte di Natale: il nemico

 

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Qualche tempo fa ci fu nel mio paese un re, un re grande e grosso, con i baffi e col colbacco, col petto in fuori e una bella divisa grigia, non tanto alto, ma di gradevole aspetto che tutti, come per augurio, chiamavano Vittorio. Ora Re Vittorio abitava in cima a un colle, dove s’era fatto un bel castello, con merli e torri e soldati di guardia, insomma proprio il castello che si conviene a un re. Dal colle fino al resto del paese aveva fatto costruire un lungo muro fortificato sul quale passeggiavano i soldati vegliando attentamente su tutto ciò che succedeva da una parte e dall’altra del muro. Questo aveva reso Re Vittorio, all’opinione di alcuni, un re guerriero, o addirittura un re minaccioso, pronto a dividere i vicini in amici e nemici. In verità, ahimè, Re Vittorio era un gran fifone, e passava le sue giornate immaginando tutti i pericoli che sarebbero potuti incorrere alla sua persona dentro e fuori le mura. Da una parte potevano arrivare legioni di stranieri in invasione, ma anche dall’altra poteva crearsi un drappello di rivoltosi pronti a rovesciare il trono. Insomma, non aveva pace il povero Re e passava le ore del giorno a spiare tra le case dei suoi sudditi e quelle della notte a spiare l’orizzonte dalla più alta delle torri. Povero Re, mangiava poco e male e dormiva pure peggio per il timore che potesse sfuggirgli qualcosa. E per timore d’essere tradito non pensava neppure di farsi un amico o di sposarsi per avere qualcuno con cui dividere quel durissimo lavoro!
In una notte d’inverno accadde così un bel patatrac! Una notte il Re vide una piccola luce avvicinarsi e subito fece suonare all’armi! In allerta soldati e civili, un nemico ci punta! I sudditi che all’inizio erano scettici iniziarono a domandare alle guardie di questo nemico, e queste ripetendo parole di re, dipinsero una figura raccapricciante e scura. Nero è di certo, come la notte e lo spavento, potente come il temporale, furioso come il terremoto, grande come le montagne. Non è figlio d’uomo perché non ha cuore, e può compiere ogni crimine senza timore o rimorso. Può mangiare uomini e bestie, senza far distinzione, dar fondo a dispense e provviste, depredare le donne, svaligiare le case.
A sentir queste parole i popolani rimasero oltremodo impressionati, e nacque nel cuore di ciascuno il desiderio di difendersi, così a giorno fatto ognuno fece in modo di procurarsi un’arma. Chi levigò grossi bastoni, chi affilò i coltelli o le spade, e chi addirittura si procacciò pistole e fucili.
Arrivò la seconda notte e il Re sempre stava sulla torre più alta, e di nuovo vide la luce muoversi tra i campi, stavolta un poco più vicina. All’armi, all’armi! Uomini e soldati! Stavolta fu Re Vittorio in persona a parlare ai suoi sudditi che di colpo s’erano fatti coesi e obbedienti come un solo uomo. Disse loro che il nemico per certo era fatto d’ombra e possedeva poteri spaventosi, che se non l’avessero fermato avrebbe violato le loro case, portato via il lavoro, ingiuriato i vecchi e sicuramente avrebbe sporcato tutte le loro belle strade e i monumenti. Così quel grande corpo popolano con tante braccia e molte teste si mise a giorno fatto a rafforzar le porte e a mettere le grate alle finestre. E alcuni, in previdenza e per premura, s’affaccendarono a mettere qualche orinatoio per le strade del paese, così che comunque non ci fosse scusa al malcostume.
Arrivò anche la terza notte, nessuno dormiva dietro le case sprangate, men che meno il Re che stava sulla torre ma con un bel pugno di soldati pronti per l’assalto. Ed ecco anche stavolta accendersi la luce e muoversi ondeggiante in mezzo ai campi, sempre più vicina. Di nuovo il Re scese per le strade, e con un tenebroso squillo di tromba e un potente microfono avvisò la popolazione che il nemico ormai era quasi alle porte. Che non cedessero, e facessero attenzione a ogni cosa, soprattutto all’aria che si respirava, perché il nemico, tra tutte le armi, ha quelle più perniciose e mortali: le malattie! Con un solo sguardo da lontano può portare coliti ed influenze, con uno starnuto può attaccare tumori ed epatiti, e il suo contatto… beh, il suo contatto anche rapido e fugace è quanto meno produttore di cancrena.
Terrorizzati da queste descrizioni, i popolani diedero ancora qualche mandata alla porta, e in via preventiva che non si sa mai qualcuno pensò bene di far profilassi con antibiotici e antinfiammatori.

Poco dopo il sorgere del sole si vide una minuscola ombra sgattaiolare da una fessura tra le pietre delle mura. Andava svelta, ma sembrava non aver paura, che camminava dritta al centro della strada. Rumoreggiarono però presto i soldati, rullando i tamburi e marciando in formazione compatta, con re Vittorio alle calcagna che star davanti era troppo fidarsi. Puntavano verso la piazza grande, dove l’ombra un po’ troppo tranquilla sembrava dirigersi. E intanto tutti stavano in casa, chi addirittura ben nascosto sotto il letto che tutto quel baccano faceva un gran spavento. Tutti tranne una, la figlia del droghiere, che curiosa come una gatta stava dietro le persiane in attesa che scoppiasse con clamore la battaglia. Così fu proprio lei la prima a guardare ben in faccia il nemico, e ad urlare: è un bambino!!!
Quando il resto del popolino s’affacciò sulla piazza ecco quel che vide: un bambino scuro di pelle, vestito di poco se non proprio di niente, col moccolo al naso e una torcia ancora accesa in mano. S’era perso o forse era scappato, e ora tutti lo guardavano con aria di sgomento. Che dire? Come può essere andata poi è facile a capirsi, qualcuno rimase diffidente e ben armato, ma i più, capito l’inganno, diedero addosso a Re Vittorio e al suo intero plotone, e pare che ancora adesso, in qualche parte del vasto mondo, se la stia filando per mettersi in salvo.

 

Storie per la notte #9

imagePer la mia gente le parole hanno sempre avuto un peso, un corpo che le rendeva pietre per il mondo. La mia gente è gente silenziosa, schiva, dice qualcuno, selvatica, addirittura, ma non si tratta di timidezza, né di diffidenza. È il bisogno di tempo per trasformare in voce ciò che il corpo sente a rallentare la parola, a disperdere le chiacchiere, a profumare di vero le promesse e colorare i nomi con l’ombra delle cose. 

Siccità

imageBrucia la lunga estate,
Il sole dalle spiagge dei turisti
S’allarga a dismisura
Sulla terra secca
Spacca radici e mani
Solo per far fiori con la polvere.

Brucia il cielo troppo azzurro
Il mare troppo quieto
La sabbia misurata ad arte
Gli amori obbligati alle canzoni
I corpi asciugati al mezzogiorno
Nel chiasso della riva.

Brucia la quercia centenaria
Le foglie croccanti per la luce
L’aria che le arriccia senza linfa
L’erba secca che s’alza
In un colpo di vento –
Nel calore ingiallisce
Persino l’asfalto.

Soltanto s’affollano a sera
Nuvole come in un velo
L’orizzonte serrato si affanna
Senza misericordia di pioggia.

Che piova sopra queste poche case
Piova sui rubinetti chiusi
Sulle vasche vuote
Sulle mandrie mute nel meriggio
Piova sulla sete delle bestie
E degli umani
Piova sulla noia adolescente
Sugli ovili pieni di miseria
E miserabili padroni
Piova sulle armi clandestine
Piova sulle rabbie senza fine
Piova sopra i corvi e le carogne
Piova sopra antenne e teleschermi
Piova sulle case degli anziani
Piova sopra i tetti e la memoria
Piova dentro gli occhi dei ragazzi
Piova sopra il cuore dei paesi
Piova sopra i grappoli di pietra
Piova sulle vigne dei cinghiali
Piova sulle strade prosciugate
Piova sui sentieri cancellati
Piova sui monti trafitti dalle stelle
Piova sui cancelli chiusi coi latrati
Piova sulle madri che sperano domani
Piova per i figli che le sorpasseranno
Piova sui muretti a secco
Piova sui lentischi ed olivastri
Piova sulle ferule incendiate
Piova sui solchi addormentati
Piova sui semi mummificati
Dall’attesa.

Piova.
Generosa ancora
L’acqua ci segni
Via.

(Bosa, 19 agosto 2017)

L’orologio

L’orologio

 

Alla vigilia di Natale la terra era ancora tiepida, solo l’aria pungeva le narici e stringeva le spalle, lasciando nitido e nudo il profilo di Monti Arcuentu e di tutta la catena del Linas. Il paese sembrava ripulito da ogni stanchezza, i minatori scesi da Montevecchio era tutti adunati nella piazza, lavati, sfregati dalla polvere fino a ritornare bianchi come le loro camicie, sbarbati perché non rimanessero tracce di nero sulla faccia, fosse anche d’un pelo. Le nuche stirate verso l’alto s’indolenzivano in fretta, ma nessuno aveva voglia di abbassare il capo. Non erano abituati alla vastità di quello spazio aperto, libero, luminoso. Qualcuno sentiva un brivido scuotergli la colonna, e dava colpa a quel vento dicembrino, ma era vertigine, e vuoto. Come reggere lo sguardo su quel nulla? Giorno dopo giorno erano le viscere scure della terra a prendere il loro corpo e il loro fiato. A sorbire ogni goccia del loro sudore, in cambio di carbone. Non avevano mai avuto occhi per quell’acuto di cielo su cui ora si slanciava quel ragazzo.

 

Severino, no, lui in miniera non c’era voluto scendere. A diciotto anni aveva già conosciuto la guerra di trincea, lo strisciare nella terra che fa gli uomini troppo simili ai roditori, e a ogni chiamata s’era rifiutato. Piuttosto alle cave di granito, aggrappato alla roccia con un filo di bava, o a strappare legna ai monti di Toscana, ma la miniera no, non l’avrebbe avuto. E non l’avrebbero avuto i suoi padroni, quelli con la camicia nera che iniziavano ad arrivare dal continente come padroni nuovi. Più infidi ancora degli inglesi, che in nome del paese e del progresso facevano più ingiusto ogni lavoro.

 

Quella vigilia Severino stava sospeso, appena un corda lo tratteneva tirata alla croce del campanile. Qualche compagno gli allungava l’occorrente dal balcone delle campane, e intanto lavorava tranquillo. Il quadrante era stato fissato dall’interno, ora restavano le lancette, da fissare fino in fondo con un lungo perno. Nessun ponteggio, solo il campanile e l’aria assolata del mattino. Per questo Severino misurava i gesti, accordando il suo respiro su quello della piazza, assaporando un ritmo che ora dilatava e ora accelerava, sentendo scorrere una corrente che tutti accomunava in quello stare al mondo.

 

Quando finì di fissare il perno a tutti i quadranti si lasciò scivolare dentro la balaustra, e chiuse gli occhi. L’orologiaio sincronizzò i quattro quadranti, e alle dodici del ventiquattro dicembre del millenovecentoventicinque, campane e orologi segnarono insieme il tempo. Da quel momento non sarebbe più stato vuoto l’intervallo tra le Ave Maria, i giorni non sarebbero trascorsi in modo diverso per i felici e gli infelici, per i ricchi padroni e i loro operai. Qualcosa avrebbe regnato uguale sopra di loro, tutti, indifferente ai privilegi e alle miserie. Il tempo avrebbe dato giustizia al tempo. Ne era certo quel giorno Severino, mentre le campane suonavano a distesa bussandogli forte sul petto.

 

(A mio nonno, Aidomaggiore 19 aprile 2017)


imageIl cielo della mia isola nasce a un palmo da terra, e le nuvole vi scorrono così vicine che anche le colline abbozzate da millenni di vento al loro cospetto sembrano montagne. Il cielo della mia isola non è un cielo cavo di cupola, non assomiglia a quei cieli che evocano distanze siderali di divinità trascendenti. Il cielo della mia isola è gonfio di presenze, è denso da ritornare quasi acqua e gocciolare poco a poco nei polmoni. Chi vi ha vissuto a lungo, o chi a lungo l’ha amato, finisce col diventare in esso una cosa sola. Così che a volte le anime sembrano scorrere nei suoi venti, o sospendersi nelle sue bonacce, mormorando storie sopra le pietre e in mezzo al fogliame. E a noi basta sollevare gli occhi per riconoscere in cielo il tratto di qualcosa che ci ha generato e che ancora, senza alcun dubbio, a noi somiglia.

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Prima che il bambino fosse bambino
Era un corso d’acqua
E il sole lo baciava alle due rive.
Le sue guance erano colline
E i suoi capelli orizzonti di foreste

Prima che il bambino fosse bambino
Era un fuoco acceso nella notte
E le sue dita erano vulcani.
Il suo cuore era l’eco di un boato
E il sangue bruciava come la prima stella

Prima che il bambino fosse bambino
Era un sasso lanciato nello spazio
E i suoi polmoni erano di vento.
La sua bocca era un filo di cometa
Ed i suoi occhi azzurri polvere sospesa

Prima che il bambino fosse bambino
Era ghiaccio silenzioso e sconfinato
E aveva una luna tra le braccia.
Le sue impronte si riempivano di oceani
E i pesci abitavano le pieghe del suo viso.

Prima che il bambino fosse bambino
Era una zolla di terra rivoltata
E i suoi piedi erano punte affilate di un aratro.
I suoi occhi erano semi piantati fino in fondo
E il suo respiro germogliava al contatto con la pioggia.

Prima che il bambino fosse bambino
Era un uomo che si metteva in piedi
Ed il suo peso era di farfalla
Le sue gambe erano montagne
E dal suo ventre nascevano le nuvole.

Prima che il bambino fosse bambino
Sua madre gli rassomigliava
E suo padre ne custodiva il nome
La sua voce era nel respiro
E la parola gli nasceva dalle mani.