L’orologio

L’orologio

 

Alla vigilia di Natale la terra era ancora tiepida, solo l’aria pungeva le narici e stringeva le spalle, lasciando nitido e nudo il profilo di Monti Arcuentu e di tutta la catena del Linas. Il paese sembrava ripulito da ogni stanchezza, i minatori scesi da Montevecchio era tutti adunati nella piazza, lavati, sfregati dalla polvere fino a ritornare bianchi come le loro camicie, sbarbati perché non rimanessero tracce di nero sulla faccia, fosse anche d’un pelo. Le nuche stirate verso l’alto s’indolenzivano in fretta, ma nessuno aveva voglia di abbassare il capo. Non erano abituati alla vastità di quello spazio aperto, libero, luminoso. Qualcuno sentiva un brivido scuotergli la colonna, e dava colpa a quel vento dicembrino, ma era vertigine, e vuoto. Come reggere lo sguardo su quel nulla? Giorno dopo giorno erano le viscere scure della terra a prendere il loro corpo e il loro fiato. A sorbire ogni goccia del loro sudore, in cambio di carbone. Non avevano mai avuto occhi per quell’acuto di cielo su cui ora si slanciava quel ragazzo.

 

Severino, no, lui in miniera non c’era voluto scendere. A diciotto anni aveva già conosciuto la guerra di trincea, lo strisciare nella terra che fa gli uomini troppo simili ai roditori, e a ogni chiamata s’era rifiutato. Piuttosto alle cave di granito, aggrappato alla roccia con un filo di bava, o a strappare legna ai monti di Toscana, ma la miniera no, non l’avrebbe avuto. E non l’avrebbero avuto i suoi padroni, quelli con la camicia nera che iniziavano ad arrivare dal continente come padroni nuovi. Più infidi ancora degli inglesi, che in nome del paese e del progresso facevano più ingiusto ogni lavoro.

 

Quella vigilia Severino stava sospeso, appena un corda lo tratteneva tirata alla croce del campanile. Qualche compagno gli allungava l’occorrente dal balcone delle campane, e intanto lavorava tranquillo. Il quadrante era stato fissato dall’interno, ora restavano le lancette, da fissare fino in fondo con un lungo perno. Nessun ponteggio, solo il campanile e l’aria assolata del mattino. Per questo Severino misurava i gesti, accordando il suo respiro su quello della piazza, assaporando un ritmo che ora dilatava e ora accelerava, sentendo scorrere una corrente che tutti accomunava in quello stare al mondo.

 

Quando finì di fissare il perno a tutti i quadranti si lasciò scivolare dentro la balaustra, e chiuse gli occhi. L’orologiaio sincronizzò i quattro quadranti, e alle dodici del ventiquattro dicembre del millenovecentoventicinque, campane e orologi segnarono insieme il tempo. Da quel momento non sarebbe più stato vuoto l’intervallo tra le Ave Maria, i giorni non sarebbero trascorsi in modo diverso per i felici e gli infelici, per i ricchi padroni e i loro operai. Qualcosa avrebbe regnato uguale sopra di loro, tutti, indifferente ai privilegi e alle miserie. Il tempo avrebbe dato giustizia al tempo. Ne era certo quel giorno Severino, mentre le campane suonavano a distesa bussandogli forte sul petto.

 

(A mio nonno, Aidomaggiore 19 aprile 2017)